L’ULTIMO INCONTRO (ITALO PICINI 1920 – 2016)
Finalmente, il libro era stampato (almeno le prime copie non rifinite), ed io mi accingevo ad andare dal professore per salutarlo e parlare con lui, come al solito, di arte con qualche inevitabile digressione sulla politica e sulla società. Anzi, il nipote Marco telefonandomi mi aveva detto che sarebbe stato meglio ritardare la mia visita di qualche giorno, così avrei incontrato lo zio già sicuramente in possesso dei suoi tanto agognati libri ,“perché zio Italo ci tiene tanto a farteli avere e te li vuole dare personalmente”.
Domenica 9 ottobre 2016 , di pomeriggio (alle 16,30) come avvisato, mi sono recato a Sulmona nella casa di riposo Santa Chiara , passando dalla suggestiva Piazza Maggiore. Una volta entrato, sono stato accolto da una zelante operatrice sanitaria che prontamente mi ha accompagnato nella stanza del professor Picini. Percorrendo un lungo corridoio prima della nostra meta, ho chiesto alla mia accompagnatrice : “Come sta il professore?” e lei, fino a quel momento loquacissima, si è limitata ad alzare le spalle. La stanza, con le finestre oscurate da tendaggi e da non so cos’altro, era avvolta da una fredda luce elettrica. Tutto era indefinitamente verde/azzurrino. Il professore, supino in un letto con le sbarre laterali, sembrava assopito. Il materasso era opportunamente sollevato nella parte dorsale e Italo (in vita non sono mai riuscito a chiamarlo per nome, benché lui lo pretendesse da me con ostinazione) inalava ossigeno dai tipici cannelli nasali. Il volto magrissimo, pallido, molto diverso da quello che avevo visto pochi mesi prima, e tuttavia sereno. Le braccia, al disopra delle coperte, spuntavano esili e tempestate da ecchimosi dovute ai tanti prelievi di sangue, e l’immancabile orologio stretto al polso sinistro. L’operatrice sanitaria lo ha svegliato con molta delicatezza e lui vedendomi ha abbozzato una piccola smorfia di assenso, come a dire “lo conosco, può restare”. A quel punto, e solo a quel punto, la signora si è sentita autorizzata a sistemare una sedia affianco al letto invitandomi ad accomodarmi, ed esclamando: “Bene, adesso fatevi una bella chiacchierata…” stava per lasciarci; ma il professore sembrava avere un solo pensiero, infatti – con voce flebile ma decisa – ha dato un comando : “Prendi i libri”, alzando al contempo la mano destra ad indicare tre. “Tre ne debbo prendere professò ?”, “Sì, tre” è stata la risposta, mentre il pollice, l’indice e il medio in estensione continuavano a tremare. Allora la donna piegandosi al disotto di un piccolo televisore spento, posto su un mobiletto a ripiani, ha preso tre copie e le ha contate scandendo bene le parole: “Uno, due e tre” poggiandole ai piedi del letto. Siamo rimasti soli io e l’artista (ma innanzitutto io e l’uomo). “Come stai professore?” gli ho detto sedendomi accanto a lui. “Sto aspettando” è stata la perentoria risposta. “Sai” ha continuato “io non ho paura di morire…, e non voglio vivere in queste condizioni”. “Guarda cosa ho dovuto subire” ha aggiunto mostrandomi le braccia. “Ma questo era inevitabile in ospedale, per il tuo bene i
prelievi andavano fatti…”, ho cercato di replicare assumendo il ruolo di medico che di solito non utilizzo; e ancora: “col tempo queste macchie nere scompariranno, vedrai”. Mentre lui scuoteva la testa incredulo. Allora, anche per alleviare il tono del discorso, ho preso uno dei libri e dopo aver lodato la copertina ho cominciato a sfogliarlo facendo in modo che anche lui vedesse le pagine. Era visibilmente compiaciuto dei primi quadri del periodo astratto-surreale che continuava ad indicarmi sfiorando con la mano le illustrazioni più significative. Soffermandosi a lungo su “Danza primitiva” (cera e gesso del 1946) e “Contorsionista” (del 1949). A proposito dell’opera “Ragazzo di Cocullo” (del 1951), con un filo di voce ma con orgoglio mi ha ricordato che quel quadro aveva suscitato l’interesse della sovrintendente ai beni storici e artistici d’Abruzzo ( Dr.ssa Lucia Arbace) che lo aveva visto casualmente a casa di un collezionista, e aveva voluto conoscere l’autore. Poi, alla pagina di un dipinto del 1952, strutturato geometricamente con delle insolite linee di contorno, mi sono soffermato facendogli notare che non l’avevo mai visto e che per me rappresentava un interessante inedito; lui mi ha fatto un cenno con la mano per dire “Passa avanti” ma io non capendo l’ho guardato con espressione interrogativa, allora spazientito mi ha intimato: “Gira pagina”. Subito dopo mi ha sorriso aggiungendo “E’ brutto, non mi piace!” e abbiamo riso insieme (guai a contraddirlo, e poi nel suo campo). Arrivati all’olio “Crivellatura del grano” (del 1958), il mio entusiasmo era aumentato (quella era un’opera che conoscevo bene e di cui sapevo la prestigiosa storia espositiva) ma Italo era improvvisamente diventato distante, ormai disinteressato al discorso e – come prima mi aveva detto di girare pagina – mi ha detto: “chiudi”. Io, allora, con un po’ di imbarazzo ho riunito i tre libri e l’ho rassicurato dicendogli che uno lo avrei dato al pittore avezzanese Lustri suo amico da tanti anni (un artista che il professore stimava molto e di cui mi chiedeva spesso), ma lui continuava a non parlare e la sua espressione sembrava dire “Fai un po’ come ti pare”. Poi, un lungo silenzio carico di emozione. E il professore, che era rimasto con la testa bassa fino ad allora, si è girato lentamente verso di me che sedevo immobile, quasi impietrito, alla sua destra e mi ha ripetuto: “Io non ho paura di morire”. In quel momento ho capito chiaramente che con lui non si doveva fingere, non era giusto, non era onesto. Qualsiasi frase pietosa poteva risultare un insulto alla sua perspicacia, alla sua intatta sensibilità. Quindi, ho detto convintamente che aveva ragione a non avere paura della morte, ma intanto bisognava alleviare le sofferenze fino al suo arrivo. Allora mi ha confidato che in quei giorni la sua pena derivava soprattutto dal non poter dormire “purtroppo, passo tutta la notte con gli occhi aperti”. Ed io, ancora per una volta medico, gli ho detto che poteva tranquillamente prendere qualche goccia di sonnifero che lo aiutasse a dormire e che ne avrei parlato all’infermiera uscendo. Il professore, però, quasi come a confessare un segreto mi ha sussurrato: “Veramente ieri sera mi hanno dato qualcosa per dormire, infatti ho dormito quattro ore di seguito, e ho sognato. Io… sogno molto, per questo voglio dormire.” Sebbene stanco, era visibilmente contento
nel riferirmi questa piccola grande conquista, e così ha continuato: “Ho sognato che lavoravo, ho lavorato molto”, ed io: “Hai dipinto? E’, hai dipinto professore?”, e lui ha annuito compiaciuto, aggiungendo con tono complice “Ho fatto anche una rivoluzione, sì una ri-vo-lu-zio-ne, eh, eh!” E ha accompagnato questa frase con un leggerissimo gesto rotatorio della mano (come a dire “Pensa un po’ tu…” ), la sua ironia era evidente, la sua soddisfazione anche.
A quel punto, il professore era spossato o forse voleva provare a dormire per continuare a sognare; ed io per pudore e per rispetto non riferirò delle ultime promesse che gli ho fatto e che non avrei mai immaginato di poter fare ad essere umano. Non le ho fatte neanche ai miei genitori, o forse non ne ho avuto modo. Mi sono inchinato verso di lui. Non riuscivo ad abbracciarlo – per via delle sponde – e avevo paura di fargli male. Gli ho stretto le mani, baciandogliele e lui ha stretto le mie. Mi sono alzato dicendogli puerilmente: “Mangia professore, mi raccomando cerca di mangiare. Fra una settimana tornerò senz’altro a farti visita”. Solo a quella improbabile promessa mi ha risposto: “Sì, ma non qui… li (indicando il suolo)”. Pima di varcare la porta mi sono girato e l’ho visto, che mi salutava (definitivamente): il capo chino e le braccia alzate (incredibilmente senza sforzo) oltre le sponde del letto, le mani flesse in un ciao. Sembrava un cristo laico, assorto, sicuro di se e assolutamente non sofferente. Già preso in un’altra vita.
Così sappiamo che il maestro Italo Picini – artista dallo spirito libero, intellettuale combattivo e indipendente, anticlericale ma molto sensibile al cristianesimo delle origini, e soprattutto uomo di grande dignità e implacabile coerenza – ha lavorato, ha dipinto fino alla fine e fino all’ultimo è stato a modo suo un rivoluzionario.
Quando Italo Picini muore non erano trascorsi neanche tre giorni dal nostro incontro.
(SULMONA – Palazzo Mazara – 9/11/2016)